Ho conosciuto Bob Thompson nel 2002, quando lo andammo a prendere all’aeroporto con Dario Ballerini, ci trovammo davanti a questo alto ed elegante signore con cappello da cowboy, occhiali Ray-Ban a goccia scuri, e fibbia ovale alla cintura, più o meno grande come un piattino da gelato. Avevamo già radunato reduci e famigliari della 86th, compagnie A e B, che avevamo combattuto sulla riva, tra Cappelbuso e il Pizzo di Campiano, e ci apprestavamo sotto la sapiente guida di Max Turchi allo start della manifestazione “Una montagna di pace”, dalla quale, almeno per quanto mi riguarda, parti tutto.
Presi una settimana di ferie per gestire tutte le persone nell’albergo Pineta di Fanano, fu una esperienza quasi soprannaturale. Lo dico perché in quei pochi giorni intensi fu davvero vita, umanità, emozioni forti, vere.
Con Harrison Coleman e la sua famiglia, Edwin Fancher, le mogli di James Loose e Frank Gorham e le loro famiglie, e diversi altri famigliari di reduci e un alpino tedesco, Hans Burtscher, vivemmo un viaggio indietro nel tempo, sia nel rivivere la cronaca di quei giorni raccontata dagli attori che ne furono protagonisti, sia per quella galanteria, e quel modo di rapportarsi con gli altri ormai perduto tipico delle generazioni di una volta che queste persone ci portarono anche se per poco tempo.
Bob è stato per me l’hot spot di quella settimana, forse perché, quasi per caso dopo la fine di un’intervista, dopo cena, mi invitò in camera sua così, giusto per fare due chiacchiere, e lì si aprì una di quelle porte che (credo, per mia fortuna) solo un reduce di una esperienza drammatica tiene chiusa per gran parte della sua vita.
Mi raccontò molti dettagli della sua guerra, e, nonostante un po' l’ostacolo della lingua nel suo modo di esporli mi trovavo come se fossi lì stato con lui, ricordo anche che quando uscii dalla stanza ero frastornato e commosso. E lì capii.
Questo simpatico vecchio omone magrissimo, con una voce quasi tenebrosa, eppure, nella sua riservatezza che sprigionava gioventù, energia e voglia di vivere, era stato capace - prendendomi quasi per mano e percorrendo assieme le ore di quelle notti su in montagna, attraverso il fragore e il tremore delle detonazioni , delle raffiche e di quanto di più brutto un ragazzo di diciotto anni affacciato alla vita deve invece fronteggiare - di mostrarmi i suoi incubi, che probabilmente lo hanno accompagnato per tutta la vita. Mi sentivo come se fossi stato eletto - anche se solo per brevissimo tempo – da quest’uomo per aiutarlo a condividere il suo dolore e i suoi fantasmi (Ndr: Thompson fu decorato con la stella d’argento per azione eroica su Cappelbuso) e ho sempre cercato di onorare questo privilegio.
Dopo averci ringraziato per avergli fatto rivedere, dopo al tempo settant’anni, anche se in una giornata quasi da bruma inglese, sotto una luce diversa quegli stessi posti dove aveva perso la sua gioventù, mi disse che era tempo di richiudere la porta, e così mi confermò sua figlia Margaret, con la quale ci sentiamo ancora, e porta con lei la dolcezza e la forza di quest’uomo del quale conserverò un ricordo meraviglioso per tutta la mia vita.
Credo che questo suo modo di essere, riservato ma “vero” - d’altronde era un montanaro anche lui in Colorado, nel suo ranch – ci abbia lasciato in eredità il giusto messaggio per le future generazioni su quanto devastante e drammatica possa essere una guerra, mai come ora di questo messaggio ne abbiamo bisogno.
God Bless you Bob, riposa in pace.